:: Intervista a Luca Conti a cura di Giulietta Iannone

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luca-contiBenvenuto Luca su Liberidiscrivere, per me è un vero piacere averti con noi ed aiutare i nostri lettori a conoscerti meglio. La prima domanda è da sempre legata alle presentazioni. Descriviti dunque come se fossi un personaggio di James Crumley.

In questo caso preferisco il modo in cui Elmore Leonard descrive i suoi personaggi: dopo duecento pagine vieni a sapere, del tutto casualmente, che il protagonista del libro ha gli occhi azzurri e, dopo altre cento, che ha i capelli castani… Questo per dire che sono una persona come tante, che ha però la fortuna di fare il lavoro dei suoi sogni.

Giornalista e traduttore; come concili queste due professioni così  impegnative?

Le ho conciliate, a fatica, per qualche anno. Adesso faccio il traduttore a tempo pieno e il giornalista quando posso.

Sei specializzato in narrativa nordamericana e prevalentemente noir, faccio dei nomi Chester Himes, Charles Willeford, Elmore Leonard, Don Winslow, praticamente i più  grandi che molta gente non leggerà  mai in versione originale ma conoscerà essenzialmente tramite le tue traduzioni. Come vivi questa responsabilità?

La vivo bene, anzi benissimo. Soprattutto perché tradurre i romanzi di autori che stimo mi ha impedito di diventare scrittore in proprio, cosa di cui il mondo non sentiva certo la necessità. Ho quindi risparmiato ai lettori il tormento di leggere i miei eventuali romanzi, e cerco di ricambiare offrendo loro buone traduzioni. Non sarei mai stato all’altezza, che so, di Willeford o Crumley, e tradurre i loro libri è per me la cosa più vicina allo scrivere come loro. Un mio romanzo – che non è mai esistito e non esisterà mai – non mi darebbe la stessa soddisfazione. Credo di essere uno dei pochi cittadini italiani a non avere un romanzo nel cassetto. Anzi, non ho neanche il cassetto.

Quali sono i tuoi maestri letterari quelli che sono per te una continua fonte di ispirazione?

Non scrivendo narrativa non ho maestri letterari veri e propri. Quando scrivo articoli, recensioni o saggi cerco di avere ben presente lo stile di certi famosi giornalisti americani di qualche decennio fa, come il grande Mike Royko, o di un narratore contemporaneo come Carl Hiaasen, che ha sempre vissuto una carriera parallela nel campo della carta stampata. Chiarezza, semplicità e, se ci riesco, leggerezza di tocco. Pedanteria, mai.

Ho avuto modo di intervistare James Sallis e gli ho chiesto di dirmi qualcosa divertente sul tuo conto, il buon James ha eluso la mia domanda e mi ha detto che non poteva perché  sei una persona serissima e un grande professionista. Che effetto ti fa essere così stimato, oltre dai lettori, anche dagli autori che traduci?

Un effetto molto gratificante, ovvio. Soprattutto quando alcuni di questi autori chiedono espressamente di essere tradotti da me.

Il mestiere del traduttore, oltre ad essere un lavoro difficilissimo, è anche poco visibile, e spesso misconosciuto quando invece molte volte fa la differenza. Come affronti questo lato oscuro della tua professione?

Direi che il traduttore fa sempre la differenza, nel bene e nel male, e credo che negli ultimi anni se ne siano resi conto anche i lettori. Adesso capita sempre più spesso, prima di acquistare un libro, di andare a vedere chi l’ha tradotto, e non solo nella narrativa mainstream ma anche in quella cosiddetta di genere.

Quali sono le tue letture preferite quando non lavori, i libri che ami leggere nel tempo libero?

Leggo molta saggistica angloamericana, soprattutto a carattere musicale e di critica letteraria, mentre per quanto riguarda la narrativa col passare degli anni tendo sempre più a rileggere certi libri che conosco praticamente a memoria: che so, I tre moschettieri o Il buon soldato Sc’vejk.

Come hai fatto ad imparare così bene l’inglese? Pensi sia un dono naturale o ci sono dei segreti legati al metodo e alla tecnica oltre ad una buona memoria?

Quella per l’inglese è  una passione che mi porto dietro fin da piccolissimo. Già a quattro, cinque anni avevo la mania di tradurre dall’inglese e di riscrivere a mio modo i libri degli altri. I miei genitori non conoscevano le lingue, quindi devo per forza pensare che per quanto mi riguarda sia un dono di natura. Poi, è chiaro, ho studiato inglese dapprima a scuola e poi all’università, ma come traduttore sono completamente e testardamente autodidatta.

Chandler o Hammett?

Vado a periodi. Adesso Chandler.

Ti piacciono i film noir americani degli anni 50’? Quanto incide sul tuo stile la cinematografia di quel periodo?

Mi piacciono moltissimo. E per autori come Elmore Leonard o James Sallis sono una parte rilevante del loro immaginario. Quindi averne una buona conoscenza mi torna assai comodo.

Domanda tecnica, parliamo del tuo metodo di tradurre. Come ti prepari per un nuovo lavoro, quante stesure fai, come scegli i termini da utilizzare e come risolvi il problema spinoso dello slang americano?

Non mi preparo: attacco da pagina uno senza leggere prima il romanzo (a meno che non lo conosca già, ovvio) e cerco di arrivare in fondo il prima possibile, nel migliore dei modi. Faccio una stesura sola e correggo pochissimo. Ho scoperto col tempo che le intuizioni iniziali, per quanto riguarda la costruzione delle frasi e, soprattutto, il tono, sono quasi sempre le migliori. Questo vale per me, ovvio; ogni collega ha il proprio metodo. E’ un approccio molto jazzistico, per così dire; sono un buon improvvisatore e credo molto nelle reazioni immediate che mi suscita il testo. Muovermi all’interno dello slang mi è sempre riuscito facile, quindi è una cosa che non mi dà pensiero.

Preferisci tradurre dall’inglese o dal francese?

Dall’inglese.

Che libro stai leggendo attualmente?

La biografia di Franz Liszt scritta da Alan Walker e quella, appena uscita, di Thelonious Monk scritta da Robin D.G. Kelley.

Per Fanucci editore hai tradotto di Lansdale “Altamente esplosivo” dieci racconti scelti dall’autore per il pubblico italiano. Cosa noti nel suo stile, si è raddolcito dagli esordi?

No, in sostanza Lansdale è  sempre lo stesso. Ha uno stile molto riconoscibile e, per me, ormai familiare: quello dello storyteller nato che ti racconta le cose più incredibili, magari dopo cena e davanti a una bottiglia.

Per quanto ci si sforzi una parte di sé emergerà  sempre nel lavoro di traduzione. Come fai a rispettare lo stile e lo spirito di un libro?

E’ un lavoro mimetico, come hanno già fatto notare molti altri prima di me. Per quanto mi riguarda, come ho già detto, credo mi sia di grande aiuto non avere velleità di autore in proprio. Per il resto, possedere un buon orecchio serve moltissimo.

Hai curato assieme a Giovanni Zucca l’edizione italiana del Dictionnaire des littératures policières di Claude Mesplède che esperienza è stata?

Molto divertente e istruttiva. Peccato che il libro non sia mai uscito…

Ci sono autori con cui hai lavorato che sono diventati tuoi amici anche nella vita privata e dimmi chi è il più simpatico?

Tra quelli che ho conosciuto, Lansdale è una forza della natura, mentre Sallis è ormai per me come un fratello. Ma ho sempre trovato persone molto aperte e disponibili, professionisti nel senso migliore del termine.

Ci sono errori che hai commesso nella tua carriera che adesso grazie all’esperienza non rifaresti più?

La valanga di note a piè  di pagina di cui avevo infarcito la mia prima traduzione di narrativa. Ma ho imparato subito, e adesso le metto solo quando non è possibile farne a meno.

James Lee Burke è stato uno dei primi scrittori che ho intervistato pressappoco quando è successo l’allagamento di New Orleans e lui è stato un po’ a descrivermi come si era messo alla testa dei soccorsi, quando mi è arrivata la sua mail che accettava l’intervista quasi caracollavo dalla sedia, tu che ricordo hai di Burke?

Una persona magnifica, un vero gentiluomo del Sud. Una persona di un’umiltà quasi imbarazzante.

Sembra davvero che tu ami le sfide impossibili. Victor Gischler è un altro dallo stile mica facile, forse uno di quelli che ho penato di più a tradurre e io mi sono limitata a tradurre un’ intervista. Anche già dal titolo “Anche i poeti uccidono” hai voluto rendere la sua forte ironia che usa spesso e che caratterizza tutta la sua opera, parlami del suo stile e delle difficoltà che hai incontrato a tradurlo.

Il titolo italiano del romanzo di Gischler non è mio, si deve a Marco Vicentini di Meridiano Zero. Ma lo trovo riuscito. Per il resto, il buon Victor – altra persona umanamente debordante – non mi è rimasto particolarmente difficile. Spero che ai lettori piaccia, perché a tradurlo mi sono divertito moltissimo.

C’è qualcuno che ti ha particolarmente aiutato anche solo con incoraggiamenti o consigli che vorresti ringraziare?

Debbo moltissimo, se non tutto, a Luigi Bernardi che mi ha fatto entrare nel mondo della traduzione letteraria dalla porta principale malgrado io non avessi la benché  minima esperienza nel settore. Evidentemente aveva visto lontano, di sicuro più di me. Dieci anni dopo, credo di aver ripagato la sua ben nota abilità di talent scout.

Giorni fa Luigi Bernardi ti ha chiesto di scrivere una monografia su James Crumley. Vi siete messi d’accordo, la scriverai sul serio?

Sì, sostanzialmente sì.

Hai mai pensato di scrivere un libro, magari un noir ambientato a Firenze?

Non ho mai scritto una sola riga di narrativa e non lo farò mai, non penso di esserne in grado. Mi piace molto di più riscrivere i libri altrui.

Ci sono in Italia buone scuole per traduttori? Ad un giovane che volesse intraprendere la tua professione che consigli daresti?

Ci sono, ci sono. Quando me lo chiedono porto volentieri la mia esperienza, anche se non insegno regolarmente. Se avessi tempo lo farei volentieri. Ritengo comunque che questo sia un mestiere che ci si costruisce in gran parte da soli, con la tenacia e l’applicazione. E l’unico consiglio che posso dare è quello di leggere, leggere di tutto e senza sosta.

A che traduzioni stai lavorando in questo momento? Ci puoi anticipare qualcosa?

Ho in ponte un paio di Elmore Leonard, la ritraduzione di un vecchio Lansdale, un romanzo di Andrew Vachss e, appena lo avrà terminato, il secondo libro di Josh Bazell.

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3 Risposte to “:: Intervista a Luca Conti a cura di Giulietta Iannone”

  1. utente anonimo Says:

    Bella intervista. Vorrei dire: i traduttori dovrebbero avere maggior guadagni e maggior gloria (nome in copertina). Parafrasando Oscar Wilde, sono artisti superiori agli scrittori poiche' il loro materiale e' l'arte, laddove per gli scrittori e' la vita.Emanuele Pettener

  2. utente anonimo Says:

    Posso testimoniare sulla "serietà" di Luca. Invano ho cercato di stuzzicarlo con le mie uscite bambinesche. Niente da fare. Meno male che è bravo…:-)Fabio Lotti

  3. utente anonimo Says:

    Complimenti Giulia, bellissima intervista, forse una delle più belle che hai pubblicato. Dopo aver letto una sporta di romanzi tradotti da Luca Conti è veramente interessante conoscerlo meglio!Andrea

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