:: Recensione di Zitto e muori di Alain Mabanckou (66th and 2nd, 2013) a cura di Giulietta Iannone

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mabanckou_zitto_coverxwebNon smetto di pensare un solo istante al fatidico giorno che mi ha portato qua, al tardo pomeriggio di quel venerdì 13 in cui, invece di godermi l’estate appena arrivata, i parchi di Parigi, i lungosenna pieni di gente, le donne che passeggiavano mezze nude per la città, all’improvviso, in quella strada poco frequentata del XVIII arrodissment, ho visto calare una cortina scura sulla mia vita. Nessun altro ricordo mi ha mai tormentato tanto, e sono addirittura arrivato a credere di essere in balia di una specie di incubo, e che la mia esistenza attuale sia soltanto un miraggio che al mio risveglio svanirà.  

Oggi voglio parlarvi di un piccolo gioiellino noir che ho scovato prima leggendone la segnalazione su un blog, e poi leggendone la recensione di Lorenzo Mazzoni sul Fatto Quotidiano.
Si intitola Zitto e muori (Tais-toi et meurs, 2012) dello scrittore congolese Alain Mabanckou. Edito da 66thand2nd, giovane casa editrice romana che vi consiglio di tenere d’occhio, (ha una collana B-Polar con titoli decisamente interessanti come Non sta al porco dire che l’ovile è sporco del beninese Florent Couao- Zotti, e La bionda e il bunker della scrittrice francese, nata a Parigi da madre bosniaca e padre montenegrino, Jakuta Alikavazovic) e tradotto da Federica Di Lella e Giuseppe Girimonti Greco, questo surreale e divertente noir ci porta nella multietnica e colorata Parigi dei giorni nostri, abitata da immigrati di tutte le nazionalità, la cui convivenza spesso turbolenta e indisciplinata, fatta non solo di solidarietà e aiuto reciproco ma anche di rivalità, gelosie e antagonismi, fa i conti con integrazione e razzismo.
La comunità congolese che ruota intorno al quartiere di Chateau-Rouge, definito con scherno e disprezzo da Mama La Padrona, proprietaria del ristorante l’Ambassade il “ghetto congolese”, fa da sfondo a questo romanzo insolitamente corale, sebbene narrato in prima persona da Julian Makambo, giunto a Parigi dal Congo-Brazzaville in cerca del suo pezzetto di futuro, in un mondo in cui il successo si misura anche solo nel potere mandare soldi a casa, o nei vestiti sgargianti dei Sapuer, membri del Sape (Société des Ambianceurs et des Personnes Élégantes), capaci di saltare i pasti pur di avere il guardaroba fornito di abiti firmati e scarpe di anaconda.
Ma Makambo, in lingala significa “guai” e al protagonista, sebbene clandestino con i falsi documenti di un certo Josè Monfort, i guai non mancheranno. Infatti l’amico e cognato Pedro Bolawa, piccolo delinquente che campa di espedienti e traffici illeciti, fornendo documenti falsi e abitazione e “lavoro” al clan di Rue de Paradis, è stato contattato per un colpo davvero grosso, pagato in contanti duecentomila euro, una sorta di regolamento di conti, perché il razzismo ha una doppia faccia ed esiste anche quello dei neri nei confronti dei bianchi, sembra dire l’autore con sincero disincanto, e sceglie proprio Julian come spalla e capro espiatorio. Perché nella comunità vige la legge dell’omertà e zitto e muori può essere inteso in modo metaforico o letterale, come spiega  Shaft al nostro esterrefatto Makambo che non ha nessuna intenzione di andare in galera per un crimine non suo.
Ecco in breve la trama di Zitto e muori, un noir africano che con ironia e sprazzi di vera comicità ci racconta di un mondo ai margini, vitale e pittoresco, se vogliamo anche naif, ma governato da regole spietate. La comunità africana a Parigi non è fatta tutta di delinquenti più o meno piccoli, ma c’è anche questo volto che Mabanckou ci descrive senza ipocrisie o falsità, ed è il bello di questo romanzo, privo di quel “buonismo” ipocrita che spesso accompagna il concetto che hanno alcuni dell’identità nera in Europa, e privo nello stesso tempo dei rugginosi preconcetti che fanno degli africani persone rozze e ignoranti. Esempio ne è lo stesso autore che ora vive in California e insegna alla Ucla.
Chiassoso, colorato, pieno di musica, non è un noir triste o che fa del facile vittimismo, anzi impreziosisce di pagine raccontate con uno stile elegante e fantasioso una narrazione anche eticamente importante. Sembra che non ci sia genere più indicato del noir per descrivere le ambivalenze e le oscurità della nostra società, – la critica del sistema legale francese è feroce, pur coi tratti dell’ironia (l’avvocato incapace, la psichiatra coi capelli grigi e ricci, i secondini)- , viste da un ospite, da uno straniero giunto in Francia per sfuggire alla povertà ma ancora legato alla sua terra d’origine, tenuta stretta con proverbi, musiche, aneddoti, ricordi.
La letteratura dell’immigrazione è ricca di perle come questa e dona nuova linfa ad un genere che sembra rinascere sempre con nuove facce. Spero di leggerne altri romanzi così. Vorrei segnalare come ultima cosa il simpatico disegno in copertina di Gigi Pescoldeung.                   

Eclettico e irriverente, il poeta e romanziere Alain Mabanckou è nato nel 1966 nella Repubblica del Congo. Figlio unico, è cresciuto nella caotica Pointe-Noire, capitale economica del paese, insieme all’amatissima madre, figura centrale della sua vita: non a caso tutti i suoi libri sono dedicati a questa donna forte e determinata che lo ha spinto nel 1989 a trasferirsi in Francia per completare gli studi. E a Parigi Mabanckou è rimasto per oltre dieci anni, assaporando il clima multietnico delle banlieue, dove culture diverse si incontrano e si scontrano, creando quel mix fertile che riaffiora nei suoi romanzi. Primo autore francofono dell’Africa subsahariana a essere pubblicato nella prestigiosa collana Blanche di Gallimard, Mabanckou ha ricevuto numerosi riconoscimenti per i suoi romanzi, tra cui il premio Renaudot per Memorie di un porcospino e il premio Georges Brassens per Domani avrò vent’anni. Attualmente Mabanckou insegna alla Ucla dove si è guadagnato il soprannome di «Mabancool» perché è considerato il professore più cool di tutta la California. Nel frattempo Black Bazar è diventato un disco, sono in preparazione due film tratti dai suoi libri e l’Académie française gli ha attribuito il Grand Prix de Littérature Henri Gal 2012 per l’insieme della sua opera.

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